La comunità educativa per minori: tra teoria e prassi.

La comunità educativa per minori: tra teoria e prassi.

Sono un Educatore professionale socio pedagogico che opera presso un appartamento, autorizzato al funzionamento come comunità per minori, che ospita ragazzi preadolescenti ed adolescenti. Forse si era intuito dagli scorsi articoli.

Mi piacerebbe provare a sintetizzarvi quali sono i punti salienti rispetto al lavoro che facciamo noi, professionisti dell’educazione, all’interno delle comunità residenziali per minori.

Vi ricordate Bibbiano e altre porcate del genere? Bene, non c’entrano nulla. Come in tutti i mestieri, c’è il buono e il cattivo e la cavalcata mediatica che c’è stata dietro a questi casi non ha fatto per niente bene al lavoro di noi educatori. La giustizia farà il suo corso e chi dovrà pagare, pagherà in qualche casa circondariale.

In questa sede, tento di rispondere a due questioni fondamentali: Cosa si intende per comunità per minori? In cosa consiste il lavoro educativo nelle comunità?

Le comunità per minori sono strutture che accolgono, appunto, minori collocati tramite la L.184/1983 che disciplina le modalità con cui dovrebbe avvenire il collocamento del minore in comunità, ovvero, disciplina tutti quei casi dove un minore non trova condizioni di godere di un ambiente familiare idoneo. Il collocamento in comunità, nello specifico, è ritenuto essenzialmente un extrema ratio dell’affidamento, ma per molteplici ragioni viene esercitato dove altri interventi educativi hanno fallito.

L’affidamento in comunità viene gestito dal servizio sociale e può avvenire con il consenso di chi esercita la responsabilità genitoriale, genitore o tutore, oppure disposto dal tribunale dei minorenni.

In questi due anni di esperienza professionale, ho vissuto sia l’ingresso volontario di ragazzi che cercavano un riparo immediato dalle proprie famiglie, sia ragazzi che, per motivi di necessità, hanno trovato nella comunità un vero e proprio nido protettivo.

Sono ragazzi che sono segnati da esperienze di relazione non sempre positive. Parlandovi della mia esperienza professionale posso elencarvi dei denominatori comuni: mancanza di una delle due figure genitoriali ( di solito il padre); presenza di droga e alcool all’interno delle dinamiche relazionali; violenze psicologiche e fisiche e generalmente una deprivazione dei legami affettivi già ad un’età dove il primo pensiero per un genitore dovrebbe essere quello di innaffiare il prato del loro erede; ma  a quanto pare non è sempre facile e fortunatamente sono solo casi isolati ed estremi.

Quando mi chiedono in che cosa consiste il mio lavoro, mi trovo in difficoltà. A volte vorrei elencare a cascate tutte le mansioni per le quali siamo chiamati, ma infatti è difficile da immaginare. Per chi non è addetto ai lavoro proverò a sintetizzare.

Il lavoro di comunità è un lavoro di vita: è presente una cornice, e all’interno bisogna costruire in qualche modo le relazioni con i ragazzi. Noi viviamo la nostra quotidianità, mattino, pomeriggio e notte, prendendoci carico dei bisogni complessivi che un bambino e un ragazzo necessita: ci occupiamo dei pasti, delle messe a letto, delle uscite, dei compiti, dell’organizzazione scolastica, della loro salute, della relazione che hanno con le loro figure genitoriali, delle regole e dei NO! Lavoriamo in un’ottica 360 gradi affinché questi ragazzi possano trovare un briciolo di speranza in più verso quel mondo che i loro occhi hanno sempre ritenuto ostile,complesso, semplicemente senza struttura.

Se dovessi essere categoriale, l’educatore di comunità si occupa di tre aspetti fondamentali dell’individuo: l’aspetto cognitivo, affettivo e sociale.

Tre categorie che si rifanno all’antica concezione triadica dell’educazione di Pestalozzi: «promuovere l’umanità di tutti li uomini mediante il rafforzamento dei loro propri poteri».

Noi educatori, lavorando in équipe multidisciplinare  e in stretta coesione con il servizio sociale e il territorio, ci occupiamo di queste massime tre categorie esistenziali, quindi, mi verrebbe da scrivere anche se con timore, ci sostituiamo temporaneamente a quelle che dovrebbero essere le responsabilità direzionali e intenzionali educative del genitore.

Un altro aspetto significativo che mi verrebbe da aggiungere è che, se dovessimo fare riferimento agli ambiti della nostra comunità educante – formale, informale, non formale – noi lavoriamo nell’ambito dell’informale.

Infatti, ogni momento è occasione di apprendimento, ma non dobbiamo scordare che la nostra mission è quella di creare e di mantenere un clima caldo e caloroso, dove i ragazzi possano sperimentare delle relazioni educative sane, significative e potenzialmente efficaci per strutturare al meglio la loro posizione futura nella società. Molte volte, come in ogni relazione educativa che si possa inserire nel contesto informale, si possono sperimentare vuoti emotivi e incomprensioni che portano ogni tanto a momenti di fuoco. E la professionalità sta anche nell’affrontare in modo efficace la gestione del conflitto con l’adolescente.

In secondo luogo, mi preme sottolineare come l’ambito informale, così confidenziale e denso di intimità, non permette delle attività strutturate. Mi spiego con un esempio semplice. Non posso proporre un film come potrebbe avvenire presso un centro di aggregazione giovanile o un’aula di un istituto tecnico: il film lo propongo in un luogo che è in quel momento la loro tana; non sempre accettano di guardarlo, spesso e volentieri vogliono guardare quello che più gli aggrada. La progettualità in questi casi è sempre costellata dalla imprevedibilità della vita. L’aspetto informale quindi ha degli aspetti positivi e negativi e l’educatore dovrà magistralmente muoversi verso questi aspetti dell’esistenza. Una lettura, una visione di un film, una canzone, un gioco di società, una chiacchierata; sono tutte occasioni dove poter rilevare delle potenzialità implicite del ragazzo.

Infine, non sempre percepiscono l’educatore come la figura sostitutiva d’eccellenza. Sono contento così. Non ritengo sia il mio lavoro quello di sostituire i genitori che, seppur con bassa intenzionalità educativa, percepiscono, a volte in modo disfunzionale, una forma di amore nei confronti del loro figlio. Piuttosto mi piacerebbe rappresentarmi come quella figura di cui possono assaporare un sentimento di fiducia, di rispetto; una figura che è sempre presente e che, nel bene o nel male, possa accogliere una richiesta, uno sfogo emotivo, una battuta, un’esperienza amorosa, un dolore non ben metabolizzato, un piccolo successo formativo. Una figura, la nostra, che scova potenzialità implicite nell’educando, che le aiuta ad emergere e che è presente proprio per quei ragazzi ne hanno bisogno in alcuni momenti della loro vita.

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